Su Vargas Llosa e il liberalismo putrido

di Alvaro Garcia Linera

Tutte le cose invecchiano: organismi viventi, persone e idee. È la dura realtà della seconda legge della termodinamica. Ma ci sono modi dignitosi per farlo, rimanendo fedeli ai principi ai quali si è raggiunto lo zenit della propria esistenza, consapevoli degli errori, e senza rimpianti o cambi di posizione dell’ultimo minuto. Ma ci sono esistenze che si corrompono per scelta, che degenerano per decisione. Sono gli esseri che sguazzano nella propria anima marcia, trascinandosi dietro le pestilenze di un destino perduto.

Questo è il patetico futuro di, quello che è ora, il politico Vargas Llosa; non del genio letterario entrato per suo merito nel canone della letteratura universale con “La città ei cani” o “Conversazione in cattedrale”. La sua attuale prosa politica è di cattivo gusto, piena di mostruosità ideologiche che offuscano la nitidezza degli ideali conservatori che un tempo professava. È come se ci fosse uno sforzo deliberato per svilire la persona che ha vinto il premio Nobel e lasciarsi alle spalle un politico decadente turbato da passioni barbare.

Vargas Llosa ingoia le sue convinzioni democratiche un tempo sostanziali per sostenere, senza alcun decoro, l’erede del regime di Fujimori che ha chiuso il Congresso della Repubblica, sospeso la magistratura, ordinato l’assalto militare ai media peruviani e promosso squadroni della morte con decine di massacri per il suo nome. Questo parla di un dramma perverso in cui un liberale rilassato si trasforma in un ardente neofascista.

E non è un soggetto di temperamento debole o convinzioni effimere che forse, in questo caso, hanno contribuito all’eleganza della sua prosa. In realtà, Vargas Llosa è un esempio, un sostenitore, dello spostamento emotivo di questo periodo.

Appoggia le grossolane manovre della sconfitta Keiko Fujimori che denuncia la “frode” elettorale e chiede

di Alvaro Garcia Linera

Tutte le cose invecchiano: organismi viventi, persone e idee. È la dura realtà della seconda legge della termodinamica. Ma ci sono modi dignitosi per farlo, rimanendo fedeli ai principi ai quali si è raggiunto lo zenit della propria esistenza, consapevoli degli errori, e senza rimpianti o cambi di posizione dell’ultimo minuto. Ma ci sono esistenze che si corrompono per scelta, che degenerano per decisione. Sono gli esseri che sguazzano nella propria anima marcia, trascinandosi dietro le pestilenze di un destino perduto.

Questo è il patetico futuro di, quello che è ora, il politico Vargas Llosa; non del genio letterario entrato per suo merito nel canone della letteratura universale con “La città ei cani” o “Conversazione in cattedrale”. La sua attuale prosa politica è di cattivo gusto, piena di mostruosità ideologiche che offuscano la nitidezza degli ideali conservatori che un tempo professava. È come se ci fosse uno sforzo deliberato per svilire la persona che ha vinto il premio Nobel e lasciarsi alle spalle un politico decadente turbato da passioni barbare.

Vargas Llosa ingoia le sue convinzioni democratiche un tempo sostanziali per sostenere, senza alcun decoro, l’erede del regime di Fujimori che ha chiuso il Congresso della Repubblica, sospeso la magistratura, ordinato l’assalto militare ai media peruviani e promosso squadroni della morte con decine di massacri per il suo nome. Questo parla di un dramma perverso in cui un liberale rilassato si trasforma in un ardente neofascista.

E non è un soggetto di temperamento debole o convinzioni effimere che forse, in questo caso, hanno contribuito all’eleganza della sua prosa. In realtà, Vargas Llosa è un esempio, un sostenitore, dello spostamento emotivo di questo periodo.

Appoggia le grossolane manovre della sconfitta Keiko Fujimori che denuncia la “frode” elettorale e chiede l’annullamento di migliaia di voti delle comunità indigene e mantiene un curioso silenzio di fronte al manifesto degli ex capi militari che invitano le Forze Armate a ignorare la vittoria di Pedro Castillo. È quindi ideologicamente imparentato con Trump, che ha istigato i suoi seguaci a conquistare violentemente il Congresso degli Stati Uniti nel gennaio 2021; o con il candidato presidenziale Carlos Mesa che, dopo aver appreso della sua sconfitta nel novembre 2019 contro Evo Morales, ha convocato i suoi seguaci per dare fuoco ai tribunali elettorali boliviani, compresi quelli che tenevano le urne. Sono atteggiamenti non molto diversi da quello di Bolsonaro, che rimprovera alle dittature brasiliane (1964-1985) di aver solo torturato piuttosto che ucciso numerosi esponenti della sinistra; o all’umiliazione di Piñera, accartocciando la sua piccola bandiera nazionale, per mostrare a Trump che i suoi colori e la sua stella starebbero in un angolo della bandiera americana.

Sono sintomi del declino del liberalismo politico che, nel suo rifiuto di assumere con dignità la luce morente della sua esistenza, preferisce esibire le miserie della sua ritirata. Prima poteva vantarsi della sua appartenenza democratica, della sua tolleranza culturale e della sua simpatia per i poveri. Poteva perché a prescindere dal partito politico vittorioso, i ricchi avevano sempre trionfato, tutti i “mondi possibili” erano progettati per loro.

Ora, il pianeta è precipitato in un destino incerto. Le élite al potere sono divise su come uscire dal pantano economico e ambientale che hanno causato, i poveri non si incolpano più della loro povertà, l’utopia neoliberista sta svanendo e i preti del libero mercato non hanno più parrocchiani ai loro piedi con cui ingannare futuri rimborsi in cambio di compiacenze attuali.

È il momento del declino del consenso sulla globalizzazione. Quelli dall’alto non hanno una prospettiva condivisa su dove andare; quelli sotto non si fidano del vecchio corso che quelli sopra indicavano loro. Tutti vivono in uno stato di stupore collettivo, tutti vivono con l’assenza di un futuro fattibile che faccia scattare, tra gli umiliati globali, scoppi di angoscia, disagio, rabbia e rivolta. Occupy Wall Street, il movimento degli Indignados in Spagna, i “gilet gialli” della Francia, le rivolte popolari in Cile, Perù e Colombia, le ondate del progressismo latinoamericano, sono i sintomi di un’era convulsa di ansie scatenate che sta appena iniziato. Nessuno degli anticonformisti sa con certezza dove andare, pur sapendo, con la chiarezza del popolano e della strada, ciò che non può più sopportare. È il tempo di un presente che viene meno e di un futuro che non arriva né annuncia la sua esistenza. Le vecchie credenze dominanti si incrinano, si ritirano per lasciare il posto all’incredulità radicale prima, e poi alla ricerca di qualche nuova certezza per radicarsi. Speranze.

È un caos creativo che erode le vecchie tolleranze morali tra chi “sopra” e chi “sotto”, spinge in ritirata il consenso neoliberista che governava la società. La strada e il voto, non più i media oi governi, sono ora gli spazi e la grammatica con cui si scriverà il nuovo mood popolare. La democrazia è rivitalizzata dal basso, ma paradossalmente per questo è diventata un ambiente pericoloso per gli ideologi neoliberisti che erano democratici finché il voto non metteva a rischio la privatizzazione e il consenso del libero mercato. Ma ora che la piazza e il voto mettono in discussione la validità di questo destino unico, la democrazia si presenta come un ostacolo e persino un pericolo alla validità del neoliberismo crepuscolare.

Le pretese di brogli elettorali che si stanno diffondendo in tutte le Americhe, e che sicuramente saranno presto presenti in Europa, non sono solo l’urlo dei vinti. Sono lo slogan disperato delle minoranze ormai neoliberiste, per attaccare sistematicamente le istituzioni democratiche e la legittimità del voto come mezzo per eleggere i governanti. Il colpo di stato tende ad essere installato come un’opzione praticabile nel repertorio politico conservatore. E fa tutto questo cavalcando un linguaggio furioso che schiaccia nel suo galoppo ogni rispetto per la tolleranza e il pluralismo. Ostentano la supremazia razziale sia contro gli indigeni che contro i migranti. Disprezzano l’anticonformismo delle persone, le etichettano come “orde selvagge”, “ignoranti”, “stranieri” o “terroristi”. E in un ridicolo anacronismo, rispolverano la vecchia fraseologia anticomunista per coprire la violenta disciplina dei poveri, delle donne e della sinistra. Il neoliberismo sta degenerando in un complesso neofascismo.

Siamo di fronte alla decomposizione del neoliberismo politico che, nella sua fase di declino e perdita di egemonia, esaspera tutta la sua carica violenta ed è disposto a fare un patto con il diavolo, con tutte le forze oscure, razziste e antidemocratiche, per difendere un progetto già fallito. Il consenso universalista di cui si vantava il neoliberismo negli anni ’90 ha dato origine al temuto odio di un’ideologia di sbocco. E, come mostra l’ultimo Vargas Llosa, la narrazione di questo marciume culturale è un pasticcio letterario privo dell’epopea di degne sconfitte.

Fonte: El Diario AR – Argentina

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