Giornate birmane, rivisitate

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di Pepe Escobar*

Sarà affascinante osservare come gli Stati (Dis)Uniti gestiranno il post-colpo di Stato in Myanmar nell’ambito del loro delirio sul “contenimento della Cina” 24 ore su 24 e 7 giorni su 7.

L’elefante (di Giada) nella complessa stanza del golpe militare in Myanmar doveva essere la Cina (chi altri?). E il Tatmadaw – le forze armate birmane – lo sa meglio di ogni altro.

Ovviamente, non c’è nessuna pistola fumante, ma è praticamente impossibile che Pechino non sia stata almeno informata o “consultata” dal Tatmadaw in merito alla nuova situazione.

La Cina, il principale partner commerciale del Myanmar, è guidata da tre imperativi strategici fondamentali nella relazione con il suo vicino meridionale: commercio/connettività attraverso il corridoio della Nuova Via della Seta, accesso completo a energia e minerali, necessità di mantenere un alleato chiave all’interno dei 10 membri dell’ASEAN [Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico].

Il corridoio della Nuova Via della Seta, che collega Kunming (nella regione cinese dello Yunnan), Mandalay e arriva al porto di Kyaukphyu nel Golfo del Bengala, è un gioiello nella corona della Nuova Via della Seta, perché mette in collegamento l’accesso strategico della Cina all’Oceano Indiano, bypassando lo Stretto di Malacca, con dei canali energetici sicuri grazie ad un gasdotto che trasporta sia petrolio che gas. Tale corridoio mostra chiaramente la centralità del “GasdottoStan”  nell’evoluzione della Nuova Via della Seta.

Nulla di questo cambierà, indipendentemente da chi manda avanti il teatrino politico-economico a Naypyidaw, la capitale del Myanmar. Il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi e Aung San Suu Kyi, conosciuta localmente come Amay Suu (“Madre Suu”), stavano discutendo del corridoio economico Cina-Myanmar solo tre settimane prima il colpo di Stato. Pechino e Naypyidaw hanno stretto non meno di 33 accordi economici solo nel 2020.

Vogliamo solo la “pace eterna”

Qualcosa di piuttosto fuori dall’ordinario è successo all’inizio di questa settimana a Bangkok. Una parte della grande diaspora birmana in Thailandia – che cresce a vista d’occhio dagli anni ’90 – si è radunata di fronte all’Ufficio per l’Asia e il Pacifico delle Nazioni Unite.

Chiedevano che la reazione internazionale al colpo di Stato non prevedesse le inevitabili sanzioni americane in arrivo. La loro motivazione: le sanzioni paralizzano il lavoro dei cittadini imprenditori e mantengono un sistema clientelare che va a vantaggio del Tatmadaw e intensifica l’influenza di Pechino ai più alti livelli.

Tuttavia, non si tratta solo della Cina. Il colpo di Stato del Tatmadaw è decisamente una questione interna, che ha comportato il ricorso allo stesso metodo di vecchia scuola e in stile-CIA che li ha messi lì come dura dittatura militare nel lontano 1962.

Le elezioni dello scorso novembre hanno riconfermato al potere Aung San Suu Kyi e il suo partito, l’NDL, con l’83% dei voti. Il partito pro-esercito, l’USDP, ha gridato allo scandalo con l’accusa di vasti brogli elettorali, esigendo un riconteggio, cosa che è stata negata dal Parlamento.

Il Tatmadaw ha, quindi, invocato l’articolo 147 della Costituzione, che autorizza l’esercito a prendere il potere in caso di una confermata minaccia alla sovranità e alla solidarietà nazionale o tale da “disintegrare l’Unione”.

La Costituzione del 2008 è stata redatta dal Tatmadaw (chi altri?), che controlla i fondamentali ministeri dell’Interno, della Difesa e delle Frontiere, e ha il 25% dei seggi in Parlamento, cosa che gli permette di esercitare il diritto di veto su ogni modifica costituzionale.

La presa militare del potere coinvolge il potere Esecutivo, Legislativo e Giudiziario. E’ in vigore lo stato di emergenza di un anno. Si terranno nuove elezioni quando saranno ripristinati l’ordine e la “pace eterna”.

L’uomo in carica è il comandante dell’Esercito Min Aung Hlaing, che si è arricchito molto dopo aver supervisionato per anni i succulenti accordi condotti dalla “Myanmar Economic Holdings Ltd” (MEHL). Ha inoltre supervisionato l’intransigente risposta alla rivoluzione zafferano del 2007, la quale dava espressione a legittime lamentele, ma che è stata ampiamente cooptata in una rivoluzione colorata americana da manuale.

Cosa ancora più preoccupante, Min Aung Hlaing ha utilizzato la tattica della “terra bruciata” contro i gruppi etnici dei Karen e dei Rohingya. Come noto, ha descritto l’operazione Rohingya come “l’opera incompiuta del problema bengalese”. In Myanmar i musulmani vengono regolarmente degradati come “Bengalesi” dai membri della maggioranza etnica Bamar.

Nessuna obiezione da parte dell’ASEAN

La vita della stragrande maggioranza della diaspora birmana in Thailandia può essere molto difficile. Circa la metà si occupa di edilizia, industria tessile e turismo; l’altra metà non possiede un permesso di lavoro valido, quindi vive nella paura perenne.

A complicare le cose, alla fine dello scorso anno il governo militare di fatto in Thailandia si è lanciato in una campagna di accuse, incolpandoli di attraversare i confini senza rispettare la quarantena, e quindi di aver causato la seconda ondata di Covid 19.

I sindacati tailandesi, giustamente, hanno indicato i veri colpevoli: reti di trafficanti protetti dall’esercito tailandese, che bypassa l’estremamente complicato processo di legalizzazione dei lavoratori migranti e protegge i datori di lavoro che violano le leggi sul lavoro.

Parallelamente, parte della (legalizzata) diaspora birmana viene invogliata a partecipare alla cosiddetta Milk Tea Alliance, un movimento che riunisce Tailandesi, Taiwanesi, cittadini di Hong Kong e, ultimamente, anche Laotiani e Filippini, contro (e chi altri se non) la Cina e, in misura minore, il governo militare tailandese.

L’ASEAN non farà alcuna obiezione al Tatmadaw: la sua politica ufficiale resta quella della non-interferenza negli affari interni dei suoi 10 membri. Bangkok, in cui, per inciso, la giunta militare ha preso il potere nel 2014, ha mostrato un’indifferenza olimpica.

Nel 2021 Myanmar deve coordinare nientedimeno che il meccanismo di dialogo Cina-ASEAN, oltre a presiedere la Lancang-Mekong Cooperation, un formato multilaterale che si occupa di tutte le questioni cruciali del Mekong.

Il possente fiume, che scorre dall’altopiano tibetano fino al Mar Cinese Meridionale, non potrebbe essere più geo-economicamente strategico. La Cina viene duramente criticata per aver costruito dozzine di dighe, che riducono i flussi diretti dell’acqua e causano dei gravi squilibri nelle economie regionali.

Myanmar sta anche coordinando un tema geopolitico estremamente delicato: le interminabili negoziazioni per definire il Codice di Condotta nel Mar Cinese Meridionale, che contrappongono la Cina a Vietnam, Malesia, Filippine, Indonesia, Brunei e Taiwan (che non fa parte dell’ASEAN).

Non sembra che il Tatmadaw stia perdendo il sonno per i problemi di affari post-golpe. Erik Prince, l’ex grande capo della Blackwater e attuale capo della Frontier Services Group (FSG) a Hong Kong (finanziata, tra gli altri, dal potente conglomerato cinese Citic), sta per colpire Naypyidaw e “cartolarizzare” le società locali.

Un dossier più succoso riguarda ciò che accadrà con il traffico di droga, in cui probabilmente il Tatmadaw avrà un pezzo più grande della torta. I cartelli dello Stato di Kachin, nel nord, esportano l’oppio verso est nella provincia cinese dello Yunnan e verso ovest in India. I cartelli dello Stato di Shan sono ancora più sofisticati: esportano via Yunnan nel Laos e Vietnam verso est e anche in India a nord-ovest.

C’è poi un’area grigia dove nessuno sa davvero che cosa stia succedendo: l’autostrada delle armi tra Cina e India, che passa attraverso lo Stato del Kachin, dove ci sono anche i gruppi etnici Lisu e Lahu.

Il quadro etnico da capogiro

La commissione elettorale del Myanmar è una questione molto complicata, per usare un eufemismo. Nominata dall’Esecutivo, ha dovuto affrontare molte critiche (interne, non internazionali) per la censura sui partiti di opposizione nelle elezioni di novembre.

Il risultato finale ha avvantaggiato l’NLD, il cui sostegno è trascurabile in tutte le regioni di confine. In Myanmar il gruppo etnico di maggioranza (e base dell’elettorato dell’NLD) sono i Bamar, che sono buddisti e concentrati nella parte centrale del paese.

Sinceramente all’NLD non interessano le 135 minoranza etniche, che rappresentano almeno un terzo della popolazione totale. E’ passato molto tempo da quando Suu Kyi è salita al potere, quando l’NLD aveva realmente molto sostegno. L’alto profilo internazionale di Suu Kyi è fondamentalmente dovuto alla potenza della macchina Clinton.

Se parlate con un Mon o a un Karen, lui o lei vi diranno che hanno dovuto imparare con le maniere forti quanto la vera Suu Kyi sia una autocrate intollerante. Aveva promesso che ci sarebbe stata la pace nelle regioni di confine, eternamente invischiate in una lotta tra Tatmadaw e movimenti autonomi, ma non ci è riuscita perché non aveva alcun potere sui militari.

Senza alcuna consultazione, la commissione elettorale ha deciso di annullare il voto, totalmente o parzialmente, in 56 cantoni negli Stati di Arakan, Shan, Karen, Mon e Kachin, tutti di minoranza etnica. Quasi 1.5 milioni di persone sono state private del voto.

Non ci sono state elezioni, per esempio, nella maggior parte dello stato di Arakan: la commissione ha invocato “ragioni di sicurezza”. La realtà è che il Tatmadaw è impegnato in un duro scontro con l’esercito dell’Arakan, che vuole l’autodeterminazione.

Inutile aggiungere che ai Rohingya (che vivono nell’Arakan) non è stato permesso di votare. Quasi 600.000 di loro sopravvivono a stento in campi e villaggi chiusi nell’Arakan.

Negli anni ’90 ho visitato lo Stato dello Shan, che confina ad est con la strategica provincia cinese dello Yunnan. Non è cambiato molto in due decenni: la guerriglia deve combattere contro il Tatmadaw, perché vedono chiaramente come l’esercito e il loro compari d’affare siano ossessionati dal prendersi le ricche risorse naturali della regione.

Ho viaggiato molto in Myanmar nella seconda metà degli anni ’90, prima di essere messo sulla lista nera dalla giunta militare, come praticamente ogni giornalista e analista che lavora nel sud-est asiatico. Dieci anni fa, il fotoreporter Jason Florio, con cui sono stato ovunque, dall’Afghanistan alla Cambogia, è riuscito ad intrufolarsi nel territorio dei ribelli Karem, dove ha scattato alcune foto eccezionali.

Nello Stato del Kachin, i partiti rivali nelle elezioni del 2015 hanno provato questa volta ad unire i loro intenti, ma alla fine sono stati molto danneggiati: il meccanismo elettorale a un solo turno ha favorito il partito vincitore, l’NLD di Suu Ki.

Pechino non interferisce nel labirinto etnico vertiginosamente complesso del Myanmar. Rimangono però degli interrogativi sull’ambiguo sostegno ai Cinesi che vivono nello Stato di Kachin nel nord di Myanmar: è possibile che possano essere utilizzati come leva nei negoziati con il Tatmadaw.

Il fatto fondamentale è che i guerriglieri non se ne andranno. I due più importanti sono l’Esercito per l’Indipendenza del Kachin e l’Esercito dello Stato Unito del Wa (nello Shan), ma c’è poi l’Esercito di Liberazione dell’Arakan, l’Esercito Nazionale Cinese, l’Esercito del Karenni (in Kayah), l’Organizzazione per la Difesa Nazionale del Karen, la Liberazione Nazionale del Karen e l’Esercito di Liberazione Nazionale del Mon.

Ciò a cui porta, a lungo termine, questa composizione armata è un tremendamente (Dis)unito Myanmar, rafforzando la rivendicazione del Tatmadaw che nessun altro meccanismo è in grado di garantire l’unità. Non turba che tale “unità” comporti dei benefici extra derivanti dal controllo di settori fondamentali, come le risorse minerarie, la finanza e le telecomunicazioni.

Sarà affascinante osservare come gli Stati (Dis)Uniti Imperiali affronteranno il post-colpo di Stato in Myanmar nell’ambito del loro delirio sul “contenimento della Cina” 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. Il Tatmadaw non sta esattamente tremando di paura.

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*Pepe Escobar è uno scrittore e giornalista brasiliano, tra i maggiori esperti di storia e relazioni internazionali. Lavora come analista per Asia Times Online e per RT Russia Television, Sputnik News e Press TV. Ha precedentemente prodotto anche per Al Jazera. Escobar è da tempo concentrato sulla geopolitica dell’Asia centrale e del Medio Oriente facendo base spesso in Iran

Fonte: Strategic Culture Foundation – Russia

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