Perché Julian non piace ai giornalisti?

di Jeremy Salt*

Perché così tanti giornalisti hanno voltato le spalle a Julian Assange? Perché così tanti l’insultano invece di difenderlo? Dopotutto, è una figura storica mondiale che sarà ricordata per secoli, come ricordiamo Voltaire, Victor Hugo e Thomas Paine. Grazie alla tecnologia, Assange ha saputo fare molto di più di quanto avrebbe mai potuto immaginare nel promuovere la componente del “diritto alla conoscenza” dei diritti umani.

Ha dato più notizie vere di tutti i giornalisti che lo deridono, quindi il risentimento avrebbe una spiegazione. Dicono che Assange “non è un giornalista” quando intendono dire che non è un giornalista come loro. Le parole chiave qui sono mediazione e controllo. “Cosa c’è dietro i titoli dei giornali” ha un altro significato oltre a ciò che realmente accade in politica. “Ciò che c’è dietro i titoli dei giornali” è anche ciò che accade nelle redazioni prima di leggere il giornale o guardare il notiziario. La notizia è un prodotto, come tutto ciò che esce dalle fabbriche.

La materia prima entra, viene lavorata, raffinata e levigata prima di essere collocata sullo scaffale in vendita come “novità”. Ogni giorno milioni di notizie fluiscono nelle redazioni. Ciò che leggi o guardi è solo una esigua frazione di questo diluvio. Ciò che si legge o si vede è ciò che qualcuno ha scelto per voi, che pensa sia ‘notizia’ rispetto agli altri che non appaiono mai, che pensa dovreste sapere al contrario di chi si potrebbe voler sapere.
Le notizie nel mainstream sono mediate dall’inizio alla fine. Il giornalista produce il prodotto grezzo. Che si tratti di incidente automobilistico o di una guerra civile, qualcun altro la vedrà sempre diversamente ma la sua versione è la materia prima da lavorare.

I redattori in conferenza quotidiana decidono se merita un posto e dove va collocata, a pagina uno, tre o cinque, all’inizio della pagina o in basso, sotto un’intestazione di una o tre colonne, all’inizio del notiziario notturno o in fondo. Il caporedattore ha l’ultima parola. È l’anello di congiunzione tra consiglio ed inserzionisti e deve affrontare la pressione che verrebbe da lì se la storia è delicata.

Pertanto, a seconda del rapporto tra caporedattore e consiglio/proprietario, una storia importante potrebbe non essere pubblicata o essere neutralizzata da non sembrare importante. Una volta deciso, il caporedattore si mette al lavoro, tagliando, rimodellando, affinando e rifinendo la storia, magari spostando i paragrafi se pensa che non siano nell’ordine giusto, finché il prodotto non è pronto ad attirare l’attenzione del lettore/spettatore, proprio come la taccola sistema il nido con carta argentata per attirare l’attenzione della femmina.

Ci possono essere divergenze di opinione tra giornalista e caporedattore, ma in sostanza sono egoistiche, non su verità o falsità o diritto del pubblico di sapere, ma su come la storia va scritta e presentata. Non ci sono notizie non mediate nei media mainstream. È la notizia decisa da giornalisti e caporedattori, dalla scelta del racconto da riportare fino alla fine della linea di produzione.

Potrebbero esserci migliaia di altre notizie che il lettore o spettatore potrebbero pensare siano più degne di spazio e tempo, e che non compaiono mai. Ciò che accade nel mondo, quindi, è solo ciò che viene segnalato, prima di essere elaborato per soddisfare i requisiti editoriali. Se non viene segnalato, potrebbe anche non essere accaduto, al di là dell’impatto nella cerchia immediata. Così i media possono far accadere o meno qualcosa, secondo le scelte delle redazioni. Il controllo si riferisce al controllo esercitato verticalmente, dal consiglio o proprietario al redattore e quindi per la catena editoriale.

A parte l’incidente automobilistico, lo stupro o la rapina, c’è una linea che va protetta quando si tratta di storie politiche importanti che riguardano inserzionisti ed interessi commerciali di un certo media. C’è sempre flessibilità, a seconda di quanto la linea editoriale sia controllata dall’alto, ma il profilo politico-sociale generale dell’organizzazione va sempre protetto. Se la “notizia” va definita come qualcosa che non si conosce, si potrebbe passare la vita a leggere libri (e sarebbe meglio). Gran parte delle “notizie” rientra nella categoria di ciò che non sappiamo, ma se dobbiamo o vogliamo sapere è un’altra questione. Le vicende infinite della famiglia Kardashian potrebbero essere un buon esempio. La definizione di notizia passava a “gossip sulle celebrità” e le celebrità rispondono dando ai redattori tutte le “notizie” che avrebbero voluto stampare, ma le “notizie” che molti di “noi” (lettori e spettatori) considerano spazzatura.

Ovviamente, affinché i media rimangano vitali, il prodotto deve vendere e indagare tra i fondoschiena Kardashian, questa è la linea di fondo. Quindi mediazione e controllo sono due ragioni per cui i giornalisti insultano Assange. Dato l’enorme volume di materiale che Wikipedia riceve, lui o il suo team esercitavano un certo controllo e decidevano su quanto caricare nell’ambito delle capacità tecniche, ma ciò che pubblicavano non è mediato. Non ci sono tagli, montaggi, ripulitura: la notizia arriva grezza e il lettore può decidere cosa farne, invece di qualcuno che ti dice cosa farne.
Un altro motivo per non amare Assange è la gelosia.

Ho colto tali giornalisti insultarlo mille volte, per aver rilasciato materiale sensazionale che svela gli sporchi segreti su cui vorrebbero mettere le mani. Nella storia recente solo un giornalista, Seymour Hersh, senza la capacità tecnica di penetrare nei caveau del governo che le fonti di Wikipedia hanno e basandosi interamente sulle sue fonti umane, si avvicinò molto a ciò che Assange ottenne. Hersh è il più grande giornalista di questa epoca, o qualsiasi altra, modello di coraggio e determinazione a cercare la verità, qualunque siano gli ostacoli. Il suo destino è istruttivo.

Emerse col massacro di My Lai nel 1968, denunciò le torture della prigione di Abu Ghraib nel 2004 e portò molte altre storie nel frattempo, ma quando superò il confine tra governo e media sulla Siria, smascherando la falsità dell’affermazione che il governo siriano fosse responsabile di un presunto attacco chimico vicino Damasco nel 2013, il suo solito media, The New Yorker, si rifiutò di pubblicarla.

La storia fu data al Washington Post, che la rifiutò. Gli argomenti secondo cui non soddisfaceva gli standard non meritano considerazione. Infine, la London Review of Books riprese la storia, ma quando Hersh seguì con un resoconto che metteva in dubbio il governo atlantista e la linea dei media sul presunto ruolo del governo siriano nel presunto attacco chimico a Qan Shayqun nell’aprile 2017, LRB rifiutò di pubblicarla anche se l’aveva comprata.

Successivamente, Hersh dovette pubblicare in Germania (‘Khan Sheikhun Trump’s Red Line,’ Welt am Sonntag , 25 giugno 2017) e ora non ha dove andare nella stampa tradizionale del suo Paese.
Un altro motivo per cui i giornalisti non amano Assange è che non sono liberi di scrivere quello che vogliono. Appartengono a istituzioni, “appartenenza” definita come proprietà. Ne dipendono per gli stipendi e le carriere. Fondamentalmente hanno ragione quando dicono “Nessuno mi dice cosa scrivere”. Nessuno deve dirglielo perché sanno già cosa scrivere se vogliono mantenere il posto, ovunque si trovino. L’autocensura è fondamentale nel giornalismo mainstream.

Nessuno con occhio al proprio interesse scriverà qualcosa che sa che i redattori gli getterebbero in faccia, non perché scritto male ma perché va contro la linea editoriale. Potrebbero essere abbastanza fortunati da esserne d’accordo, ma se non lo sono devono adeguarsi o cercare un futuro altrove. Così, i giornalisti hanno il potere, potere e denaro dell’istituzione dietro di loro.

Assange non ha istituzioni dietro di lui. Anzi, le istituzioni sono tutte contro di lui. Un media che l’ha consumato e abbandonato. Il governo del suo Paese, l’Australia, non ha mosso un dito in sua difesa. Ciò che Assange ha dietro di sé è il potere di dire la verità, che dovrebbe essere il nucleo del giornalismo, non l’adattamento della verità e l’accettazione delle bugie che caratterizzano gran parte del giornalismo mainstream oggi.

Quindi, ovviamente, ai giornalisti non piace, o dovremmo dire “giornalisti”, perché chi fa vero giornalismo oggi, loro o Julian Assange?

*Jeremy Salt ha insegnato presso l’Università di Melbourne, la Bosporus University (Istanbul) e la Bilkent University (Ankara), specializzandosi in storia moderna del Medio Oriente. Le sue pubblicazioni includono ” The Unmaking of the Middle East. A History of Western Disorder in Arab Lands ” ( Berkeley: University of California Press,  2008. ) Il suo ultimo libro è ” The Last Ottoman Wars. The Human Cost 1877-1923 ”  ( Salt Lake City: University of Utah Press, 2019 ).

Fonte: American Herald Tribune – USA

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