Il rettore dell’Università dell’Illinois attacca la solidarietà con la Palestina

Le adesioni alle manifestazioni del progressismo radicale negli Stati Uniti aumentano grazie a un lavoro serrato di informazione e di presenza nei luoghi di lavoro e di studio

18 ottobre protesta nel campus dell’Università dell’Illinois a Champaign-Urban, contro gli attacchi dell’amministrazione alla solidarietà con i palestinesi

Il 9 ottobre, il rettore Robert Jones dell’Università dell’Illinois, a Urban-Champaign, ha inviato un’e-mail di massa a tutti gli studenti e lavoratori universitari, affermando che l’attivismo filo-palestinese è antisemita. Questa dichiarazione ha scatenato un movimento per difendere i diritti dei palestinesi e confrontarsi con le vere fonti di razzismo nel campus.

Con l’oggetto “Affrontare l’antisemitismo”, l’e-mail di massa iniziava affermando che nel campus si erano verificati molteplici episodi di intolleranza. Il primo incidente riportato nell’e-mail di massa riportava che “è stata trovata una svastica nel palazzo delle lingue straniere. È stata avviata un’indagine che è in corso.” Non sono state fornite ulteriori informazioni sull’aggressione antisemita, né l’amministrazione ha fornito notizie sulle misure per affrontarla.

Invece, l’e-mail è continuata con sei lunghi paragrafi in cui il rettore ha condannato “una recente presentazione (seminario interno all’università-ndt.) con contenuto antisemita in un programma di sviluppo del personale da parte di uno studente lavoratore”. La presentazione è stata data da uno studente-lavoratore palestinese e un avvocato multiculturale. Il contenuto della presentazione era la storia recente della Palestina, inclusa la continua occupazione israeliana e l’apartheid, nonché la Grande Marcia di ritorno. Un altro studente, che aveva già usato termini storicamente dispregiativi per i neri, ha erroneamente affermato che questa presentazione, che è stata usata per anni, era antisemita.

Una delle diapositive della presentazione ha sottolineato esplicitamente le differenze fondamentali tra l’antisionismo – critica delle politiche israeliane come stato coloniale e stato di apartheid – e l’antisemitismo – un’ideologia razzista che si basa sul capro espiatorio, sull’indicizzazione e sulla persecuzione degli ebrei. Gli studenti-lavoratori che hanno tenuto la presentazione, nel corso delle 16 settimane dell’ultimo semestre, hanno tenuto sei discorsi sull’antisemitismo come parte del loro impegno per l’attivismo e la liberazione palestinese.

(altro…)

Prima vittima delle proteste in Ecuador

Mediaticamente molto meno note di quelle ad Hong Kong, le proteste in Ecuador si stanno allargando

Le organizzazioni sociali ribadiscono che lo sciopero nazionale continuerà fino a quando il presidente Lenín Moreno non abrogherà il decreto che elimina il sussidio al diesel e alla benzina noto come “extra”.

Come parte delle massicce proteste in Ecuador , le organizzazioni sociali e il governo Azuay hanno riferito domenica della morte del manifestante Raúl Chilpe.

Secondo i testimoni, Chilpe è stato investito da un veicolo privato mentre i manifestanti hanno partecipato al blocco dell’autostrada Cuenca-Molleturo, settore El Chorro, situato nel sud del paese.

Il direttore provinciale della Commissione governativa sul traffico (CTE), Edinson Moscoso, ha indicato che l’incidente è avvenuto al chilometro 18; sebbene l’autista sia fuggito dal sito, pochi minuti dopo è stato catturato dalle autorità.

Il governo ha emesso un comunicato ufficiale, invitando le organizzazioni popolari e l’esecutivo nazionale a risolvere le divergenze attraverso un programma di dialogo.

Da parte sua, la Confederazione delle nazionalità indigene (Conaie), ha decretato uno stato di emergenza nei loro territori originali e ha annunciato che avanzeranno a Quito (la capitale-ndt.) per rifiutare il pacchetto tariffario del governo e la repressione della forza pubblica contro il popolo.

Fonte: TeleSur

https://www.telesurtv.net/news/ecuador-primera-victima-protestas-populares-20191006-0024.html#

Disuguaglianza territoriale: Puerto Rico, Isole Vergini americane, Guam e Samoa americane

Ci sono realtà territoriali e rivendicazioni poco conosciute che stanno emergendo dopo decenni di sonno nella colonizzazione. Diamo voce ai territori statunitensi non incorporati nella Federazione USA, che pagano dazi in termini di sicurezza, mancanza di autonomia e rappresentanza. Conoscere gli effetti dei cambiamenti geopolitici vuol dire sapere i retroscena anche di queste realtà isolate

di Wilma Reveron Collazo*

La relazione politica dei territori statunitensi non incorporati, nei Caraibi e nel Pacifico, assomiglia alla mancanza di poteri politici conferiti dalla sovranità violata dal cosiddetto potere amministrativo, ma differisce in materia di cittadinanza, nazionalità, lingua, etnia e diritti ancestrali. Alla fine, gli abitanti dei territori subiscono la mancanza di accesso ai diritti democratici e ai diritti fondamentali ai sensi della Carta dei diritti della Costituzione degli Stati Uniti, il trattamento ingiusto e dispotico e il rifiuto degli Stati Uniti di rendere possibile un vero esercizio di autodeterminazione.

I vicini delle Isole Vergini americane (USVI)

Le Isole Vergini americane (USVI) furono acquisite dagli Stati Uniti per danaro dalla Danimarca il 30 marzo 1917, dopo due secoli e mezzo di dominazione danese. Si compone di quattro isole principali, Santo Tomás, Santa Cruz, San Juan e Isole Agua e 50 isolotti e piccoli atolli, che coprono un’area di 133 miglia quadrate.

(altro…)

Pippi Calzelunghe 2.0 – Se la conosci la eviti

I fotogenici genitori di Pippi Calzelunghe 2.0. Usciranno prima o poi allo scoperto?

Greta Thunberg -16 anni- e la sua amica diciassettenne americana Jamie Margolin, vengono entrambe considerate “consulenti speciali e fiduciari” della ONG svedese We Don’t Have Time (Non abbiamo più tempo-ndr.), fondata dal suo Amministratore Delegato, Ingmar Rentzhog.

Rentzhog è un leader del Climate Reality Project di Al Gore e fa parte della task force per la politica climatica europea. Era stato preparato nel marzo 2017 da Al Gore a Denver e, di nuovo, nel giugno 2018 a Berlino. Il Climate Reality Project di Al Gore è un partner attivo di We Don’t Have Time.

Albert Arnold “Al” Gore, Jr., è un politico statunitense che si propone da sempre come ambientalista. È stato il 45º Vicepresidente degli Stati Uniti d’America durante la presidenza di Bill Clinton. Nel 2006 ha prodotto -sotto mentite spoglie- il film “Una scomoda verità” (An Inconvenient Truth) che ha vinto l’Oscar come miglior documentario. La Paramount Pictures che lo ha distribuito è una major cinematografica nota per essere molto in linea con certe esigenze del colonialismo culturale d’esportazione. Il protagonista della pellicola era lo stesso Al Gore, ripreso in dibattiti e conferenze, alcune delle quali molto probabilmente ricostruite per esigenze d’immagine.

Greta Thunberg fa parte quindi di una rete strettamente collegata all’organizzazione di Al Gore e pare sfruttata commercialmente in modo cinico e professionale. Le è stata creata un’immagine precisa tanto da poter guidare le proteste e le esternazioni utili ad altri ben più forti poteri. Come abbiamo visto viene utilizzata da agenzie con degli interessi finanziari dietro le quinte, pronte a sfruttare l’attuale agenda sul clima.

Il Principe Carlo d’Inghilterra, (il cui padre Principe Filippo, marito della Regina Elisabetta II, fu tra i fondatori del WWF e ne è l’attuale presidente-ndr.), futuro monarca del Regno Unito e i circoli finanziari della Banca d’Inghilterra e della City londinese hanno promosso “strumenti finanziari verdi,” sopratutto Green Bonds, allo scopo di reindirizzare i piani pensionistici e i fondi comuni di investimento verso progetti verdi. Un attore chiave nel collegamento delle istituzioni finanziarie mondiali con l’agenda verde è Mark Carney, capo uscente della Banca d’Inghilterra. Nel dicembre 2015, il Financial Stability Board (FSB) della Bank for International Settlements (BIS), presieduto all’epoca da Carney, aveva creato un gruppo di studio sulla divulgazione finanziaria legata al clima, la Task Force on Climate-related Financial Disclosure (TCFD), allo scopo di consigliare “gli investitori, i finanziatori e le compagnie assicurative sui rischi legati al clima.” Questo era certamente un obiettivo assai strano per i banchieri centrali del mondo.

In qualità di ricercatrice e di attivista climatica, la canadese Cory Morningstar ha documentato, in una serie di eccellenti post, come la giovane Greta stia lavorando in una rete ben consolidata e collegata all’investitore del clima statunitense, nonché ricchissimo profittatore climatico, Al Gore, presidente del gruppo Generation Investment. Il partner di Gore, l’ex funzionario di Goldman Sachs, David Blood, è un membro del TCFD creato dalla BIS.

Sapendo chi è annidato dietro ai genitori di Pippi 2.0 –visto che in Svezia la maggiore età si raggiunge a 18 anni e lei ne ha 16– scendereste in piazza per dare una mano all’agenda di Soros, della Goldman Sachs, della BIS, della TCFD e di Al Gore?

Lito

Articolo di riferimento “Climate and the Money Trail” (Il clima e la pista dei soldi) di F. William Engdahl, da New Eastern Outlook – USA (https://journal-neo.org/)

ONU: Trump docet

Si vede che hanno ancora del tempo o credono di averlo

Contrariamente a quanto pensavo, il discorso di Donald Trump all’Assemblea Generale dell’ONU è stato abbastanza chiaro e sono poche le cose da decifrare tra le righe. Naturalmente avrei auspicato e apprezzato un punto su punto nei riguardi delle esternazioni di Russia e Cina, non ancora presentate ufficialmente, ma ampiamente diffuse dai rispettivi ministeri degli affari esteri.

Così non è stato, quindi risalta come primo dato che la morsa delle Colombe con gli artigli, i klintoniani, non è ancora disposta ad allentare la presa e preferisce andare agli stracci con i Falchi. Il sintomo esterno alla belligeranza, tutta statunitense, è la nuova minaccia d’inchiesta su Trump nell’Ucraina affair. In pratica mirano più in basso, visto lo svaporare di quella più in alto del Russia-gate, che ha tenuto banco mediatico per quasi tutto il mandato presidenziale prima di dissiparsi.

Secondo aspetto rilevante è quello che riguarda le invettive, le ingiurie e le calunnie verso i Paesi Bersaglio, quelli non in linea con gli interessi delle multinazionali anglofone. Come ormai da decenni vediamo i soliti noti sotto accusa, questa volta senza neppure l’uso dello sproloquio in salsa diplomatica.

La lista dei cattivi, che per essere tale deve comprendere sempre Cuba, viene aggiornata a secondo di dove non riescono a piazzare i propri proconsoli per spogliare le risorse, ed è sparsa a macchia di leopardo per l’intero globo: Iran, Venezuela, Cina, Russia, ecc., ecc.

(altro…)

Fermi tutti: forse la Terza Guerra Mondiale non è finita…

Fermi tutti: forse la Terza Guerra Mondiale non è finita…ma se a dirlo sono i soliti mezzi di comunicazione delle multinazionali forse non ci credo

Titanic 2.0 con Donald Trump e Boris Johnson

di Lito

La presa sullo Stato Profondo, quello investito in pieno dal potere mediatico dei klintoniani, potrebbe non essere ancora in fase di allentamento. Oppure potrebbe trattarsi degli ultimi colpi di coda di quel loro controllo diffuso, abbondante proprio nel settore della comunicazione, che come abbiamo visto durante il mandato Trump, si è dimostrato particolarmente tenace. Pare la lotta senza quartiere che si vede da tempo a Londra: fuori o dentro l’Europa Unita? Ma fuori, fuori o dentro un pochino, con un piede che evita la chiusura dell’uscio?

Chiaro è che la fine di un’epoca non avviene senza contraccolpi e con i soggetti designati alla sconfitta che si ritirano in buon ordine. Questo anche perché da quando guerra è guerra, chi perde paga tutto, e si deve accollare pure le nefandezze fatte del vincitore!

Però fermi tutti, un grido stampa dell’ultima ora ci fa volare alto! Stando al Washington Post, il presidente statunitense avrebbe cercato di manipolare il governo ucraino per favorire la sua rielezione. Riportiamo il titolone dal quotidiano della capitale federale USA: “Oggi si è scoperto anche che Donald Trump avrebbe fatto ripetutamente pressione nella telefonata di luglio al presidente ucraino perché Kiev aprisse un’indagine sul figlio di Joe Biden”. Il figlio del concorrente alle prossime elezioni sarebbe, di suo, coinvolto in un torbido affair legato agli idrocarburi…

Da notare come sempre il famoso avrebbe.

Invece noi, abbiamo già visto più volte gli attacchi a Trump su questioni estere, tanto da pensare che dopo l’ennesima chiamata, al lupo – al lupo, la volta che si presentasse veramente, ormai nessuno ci  crederebbe più. Quella più estenuante, durata anni, è stata la stressante vicenda del caso solennemente sgonfiatosi del Russia-gate, quello dove abbiamo visto il crollo finale alla deposizione del Procuratore Speciale Robert Muller.

Tornando quindi con i piedi a terra, dopo aver letto e apprezzato molto l’intervento del Ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov (che abbiamo da poco riportato quì), restiamo in attesa dell’ormai famoso discorso di Trump all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, perché da quel momento si potranno tessere ipotesi concrete sul futuro della geopolitica. Anche se i media ancora accodati al klintonismo cercano di spostare l’attenzione su altro, il centro della questione è proprio relativo a che cosa risponderà il Mega Berlusconi d’oltreoceano agli inviti coerenti e precisi della posizione russa, condivisa non solo verso oriente, ma diffusamente nel resto del mondo.

In pratica avranno capito che la via per nuovi golpe, blocchi economici, rivoluzioni colorate o guerre per procura… si potrà svolgere solo su una strada inesorabilmente sempre più stretta, fino a diventare una gola chiusa e poi un imbuto?

Per nostra storia personale abbiamo conosciuto e dialogato di politica estera con rappresentanti del pragmatismo nordamericano. La vera anima profonda della politica statunitense non è come da sempre è dato vedere il ricorso al revolver, ma la convenienza di fondo, il pragmatismo appunto.

Sfoderare la pistola e sparare, fin’ora è stato l’elemento concreto della scelta pragmatica. Nel momento in cui di fronte alla pistola (metaforica) si piazzasse il cannone (metaforico?) vedremmo il pragmatismo dirigere le scelte verso più miti consigli.

Anche questo sarebbe un sintomo dell’avvicinarsi della fine di un impero.

 

Trump, il pirata dei Caraibi

C’è qualcosa nel DNA di questo paese che reagisce patriotticamente ogni volta che gli Stati Uniti, con un territorio 90 volte più grande, minacciano Cuba

di Rosa Miriam Elizalde*

“Che bruti!” Esclama Olivia Palmares, l’insegnante di quinta elementare alla scuola “Nguyen Van Troi” a La Habana. Non dice una cosa del genere sui suoi studenti, che sono ai suoi occhi i più intelligenti e ben educati della città, ma del governo degli Stati Uniti. Viaggia in un’automezzo statale che si è fermata a un semaforo e, prima che lei chieda il passaggio per tornare a casa dopo la scuola, si è offerta di portarla.

Si parla nel Lada russo di ciò che tutti commentano per strada. Donald Trump ha aumentato la persecuzione delle compagnie di navigazione e delle compagnie di rifornimento diesel che si spostano attraverso i Caraibi, a Cuba o in Venezuela. Il carattere brutale e capriccioso del Presidente è ora affiancato dai passatempi del filibustiere Henry Morgan, il più grande di tutti i saccheggiatori marittimi al tempo di corsari e pirati. Washington ha causato una crisi energetica nella maggiore delle Antille con evidenti impatti economici, in particolare nei trasporti pubblici.

Non ci sono blackout a La Habana come ai tempi del cosiddetto “Periodo Speciale” in cui una crisi di forte intensità ha gravemente colpito l’economia, ma, quasi da un giorno all’altro, nella città più popolosa dell’arcipelago con 2,3 milioni di abitanti, le partenze degli autobus sono concentrate principalmente in periodi di maggiore domanda e diminuiscono la frequenza di treni e veicoli verso altre province. I centri di lavoro e le università tagliano le giornate nel pomeriggio, per alleviare la congestione alle fermate degli autobus e ridurre il consumo di energia.

Il presidente Miguel Díaz Canel ha chiamato ogni cubano a pensare come deve fare un paese per affrontare la situazione: “Stanno cercando di impedire al carburante di raggiungere Cuba, con ricatti a compagnie mercantili … L’applicazione della legge Helms-Burton ha intimidito e ha fatto pressioni su alcune aziende e questa situazione ha causato negli ultimi giorni una bassa disponibilità di diesel per produzione e servizi “, ha affermato.

C’è qualcosa nel DNA di questo paese che reagisce patriotticamente ogni volta che gli Stati Uniti, con un territorio 90 volte più grande, minacciano Cuba. È un atto istintivo di autoprotezione nazionale, il clic di un commutatore che aggiorna il patto di solidarietà cittadina, il grido di resistenza iniziato il 7 febbraio 1962, il primo giorno del “blocco di ferro e senza cuore”, come lo chiamerebbe Gabriel García Márquez in una cronaca fatta con i suoi ricordi di corrispondente per Prensa Latina da La Habana. Ha raccontato che l’Oxford, “una nave della CIA” equipaggiata con tutti i tipi di dispositivi di spionaggio, pattugliava le acque territoriali cubane per diversi anni per garantire che nessun paese capitalista, tranne i pochissimi che osavano, contraddisse la volontà di gli Stati Uniti. Era anche una provocazione calcolata, alla vista di tutti.

Ora il pirata Trump non ha bisogno di navi spia nei Caraibi. Basta una telefonata o un’email dall’ambasciata degli Stati Uniti alla compagnia di navigazione, per far girare rotta alla barca con il gasolio per gli autobus dei poveri che vanno al lavoro o a scuola, anche se il governo cubano ha pagato quel trasporto in anticipo. È un atto di crudeltà che viene annusato fin dal livello della strada e si traduce immediatamente in indignazione e disprezzo.

Ogni volta che succede qualcosa del genere – e siamo stati qui per 57 anni – la reazione è la stessa: non appena si saprà il nuovo orrore degli Yankee, la generosità del cubano e di quel macchinista che ieri è passato indifferentemente emergeranno su ogni treno, ora si fermerà senza che nessuno l’abbia chiesto e senza chiedere nulla in cambio a una donna come Olivia per farla arrivare a casa il più presto possibile e poter ripetere lungo la strada: “Che schifo, ma che schifo!”

*Rosa Miriam Elizalde, la più nota giornalista cubana, co-fondatrice del portale CUBADEBATE, il sito informativo dell’Isola più visitato al mondo. Scrive anche per numerosi altri mezzi di comunicazione a Cuba e nei paesi latinoamericani

Fonte: La Jornada – Messico

https://www.jornada.com.mx/2019/09/19/opinion/026a2pol

 

Le bugie eco-insostenibili

In verde le foreste pluviali nel mondo, tropicali -la maggior parte- e non tropicali

di Lito

Purtroppo non è possibile seguire e contro-informare in merito a tutte le frottole che il sistema diffonde tramite l’industria della comunicazione. Nel nostro piccolo –infinitesimo-, non possiamo che  dare a chi ha dubbi, altre visioni a patto che ne sia alla ricerca e che venga a cadere qui.

Ci rivolgiamo quindi a chi è almeno poco convinto che le Multinazionali dell’informazione dicano sempre il vero e a chi si pone disponibile a ragionar di proprio, dando fiducia a questa fonte, magari dopo avere trovato riscontri in quello che andiamo scrivendo.

…di sicuro da questo spazio web nessuno si ritiene il più bravo, il più informato o quello che deve dare lezioni di “attenzione” agli utenti. Però l’attenzione non possiamo che raccomandarla, visto che ormai con il sistema in declino le bugie si sommano, formando un castello di carta altisssssimo che quando cadrà, lascerà la mascella a terra a tutti quelli che ora scuotono la testa.

Un caso recente, l’Amazzonia: abbiamo trattato da poco su questo sito, qui, l’argomento delle proteste che ormai non vengono più convocate da riconosciuti movimenti politici o sociali, ma direttamente dai telegiornali del sistema. Questi a loro volta citano come richiamo i dispacci delle ONG più famose, quelle che se mostrassero i loro veri bilanci, sarebbero ricacciate a furor di popolo nelle gore putride del decadente potere, dalle quali sono fuoriuscite per contaminare le menti dei buoni di spirito con limitato QI.

(altro…)

Il governo dell’Uruguay denuncia ingerenze USA in vista delle prossime elezioni di ottobre

Uruguay, il paese che ha avuto la fortuna di avere un Tupamaro presidente, con significativi vantaggi per le classi subalterne. Una nazione “distinta” storicamente dall’ingombrante Brasile che la sovrasta e federata a singhiozzo con le province argentine che l’affiancano e con la quale condivide una bandiera molto simile. Il mate nell’uso e l’accento “castellano” sono simili. Ha condiviso la sofferenza del Plan Condor e si spera che i giovani di oggi non se ne dimentichino; l’uso della marijuana è tollerato -se non pienamente libero- e la differenza culturale con gli altri paesi di quota balza agli occhi. Una California latinoamericana? Forse. 

Gli Stati Uniti e le indebite ingerenze negli affari dei paesi sudamericani. Questo binomio si conferma purtroppo inscindibile. Il governo uruguaiano accusa gli Stati Uniti di interferire nella campagna elettorale in vista delle elezioni presidenziali di ottobre in programma nel paese.

«Ho detto che gli Stati Uniti si stavano intromettendo (…) nella campagna elettorale uruguaiana», ha dichiaratao il ministro degli Esteri uruguaiano Rodolfo Nin Novoa durante un’intervista a una radio locale.

Gli Stati Uniti questa volta hanno deciso di intervenire in un modo alquanto singolare. Le dichiarazioni del diplomatico del paese sudamericano, arrivano infatti, in riferimento alla comunicazione del governo degli Stati Uniti, pubblicata venerdì 2 agosto, in cui viene messa in dubbio la sicurezza in Uruguay e avvisa i suoi cittadini di non viaggiare nel paese a causa dell’aumento del crimine.

Il documento segnala inoltre che “i crimini violenti, come omicidi, rapine a mano armata, saccheggi e furti di veicoli, che di verificano in Uruguay” possono mettere in pericolo la vita dei cittadini statunitensi che decidessero di recarsi nel paese.

A questo proposito, il ministro degli Esteri uruguaiano ha sottolineato che l’avvertimento di Washington ai suoi cittadini sul paese sudamericano “è come guardare la pagliuzza nell’occhio altrui e non la trave nel proprio”.

“Gli Stati Uniti hanno un tasso di omicidi medio di 25 per 100.000 abitanti” mentre “in Uruguay ne abbiamo solo la metà”, ha sottolineato Rodolfo Nin Novoa.

Il governo di Montevideo da parte sua ha ha lanciato un allarme ai suoi cittadini affinché non viaggino negli Stati Uniti per la “crescente violenza indiscriminata” e “per i crimini d’odio” che sono radicati nel “razzismo e nella discriminazione”.

Come purtroppo conferma la recente sparatoria in un centro commerciale di El Paso, nello Stato del Texas (USA), che ha provocato almeno 20 morti e 26 feriti e forti reazioni internazionali, vengono mosse accuse ad altri stati sulla pericolosità, mentre proprio negli USA si toccano i picchi più alti .

Secondo l’ultimo bilancio raccolto dall’organizzazione Gun Violence Archive (GVA), dal gennaio dell’anno in corso, ci sono stati 32.983 incidenti relativi a armi da fuoco negli Stati Uniti che hanno causato ben 8.708 morti. Non citiamo i dati dell’Uruguay per non avvilire i cittadini statunitensi.

Fonte: IspanTV – Iran

https://www.hispantv.com/

USA – Assange assolto: primo passo nella direzione auspicata

In questo nostro articolo (https://amicuba.altervista.org/blog/?p=8862) del 24 maggio scorso, avevamo trattato il caso Assange suggerendo delle possibili evoluzioni: con piacere possiamo dire di aver previsto, e non solo tra le righe, una via d’uscita, pur anteponendo quella scandinava a quella statunitense. Quindi prima del jump da canguro australiano, aspettiamo ancora lo step svedese

Assolto! Dopo un’estenuante campagna di attacchi politici e mediatici, Julian Assange e WikiLeaks sono stati assolti dal giudice federale di New York, John G. Koeltl, per la pubblicazione delle email del Partitito Democratico americano durante la campagna elettorale del 2016. Chiaramente ora si passa alla conseguente faccenda, la richiesta d’estradizione dalla Gran Bretagna verso gli Stati Uniti.

Il giudice Koeltl, all’epoca nominato nell’incarico proprio dai Democratici, ha stabilito che la pubblicazione di documenti veri e nel pubblico interesse, anche nel caso in cui siano stati rubati, è protetta dal Primo emendamento della Costituzione americana e pertanto non può essere punita.
Si tratta di un verdetto che riconferma un principio che negli ultimi decenni ha sempre garantito al giornalismo statunitense di pubblicare documenti estremamente scottanti, anche quando la loro provenienza era discutibile, perché erano stati rubati o comunque pervenuti illegalmente.

La sentenza arriva pochi giorni dopo la testimonianza di Robert S. Mueller davanti al Congresso sullo scandalo Russiagate. La pubblicazione delle email dei Democratici da parte di WikiLeaks, durante la campagna elettorale del 2016, comprese quelle del capo della campagna elettorale di Hillary Clinton, John Podesta, è il fulcro del Russiagate.

A citare in Tribunale Julian Assange e WikiLeaks era stato proprio il Comitato Nazionale dei Democratici USA che da un anno aveva presentato una denuncia penale contro quella che sostenevano fosse una cospirazione tra la Russia, la campagna elettorale di Donald Trump e WikiLeaks per interferire sulle elezioni a danno della Clinton.

L’accusa, secondo l’azione legale dei Democratici, era quella di aver cospirato e diffuso materiale particolarmente dannoso per la campagna elettorale di Hillary Clinton.

La sentenza di oggi, però, assolve WikiLeaks per la pubblicazione delle email, che rivelarono indubbiamente storie importanti, come il fatto che il Comitato dei Democratici non agì affatto in modo neutrale durante le primarie e boicottò Bernie Sanders a favore di Hilary Clinton, una rivelazione questa che portò alle drammatiche dimissioni del capo della campagna dei democratici, Debbie Wasserman Schultz. Restiamo quindi anche in attesa di cosa dirà adesso in merito il Senatore socialista -così si definisce- del Vermont.

Quindi doppia schiacciante sconfitta per il team Clinton.

L’assoluzione di WikiLeaks è indubbiamente dovuta anche al fatto che organizzazioni con una grande reputazione in tema di libertà di stampa negli Stati Uniti si sono costituite in tribunale a difesa del diritto di Julian Assange e di WikiLeaks di pubblicare documenti, anche quando la loro provenienza sia dubbia o furtiva, purché siano veri e nel pubblico interesse. L’American Civil Liberties Union (ACLU), il Reporters Committee for Freedom of the Press (RCFP) e il Knight First Amendment Institute della Columbia University, infatti, hanno supportato sia Assange che WikiLeaks in tribunale. A nostro avviso però nulla avviene senza una vera ragione di fondo nella battaglia tra “falchi” e “colombe con gli artigli. Quindi anche lo schieramento di queste forze liberal in tribunale ha un perché preciso, mediatico e rassicurante per l’esito dell’eventuale accordo già raggiunto prima del giudizio.

La sentenza del giudice federale John G. Koeltl, potrebbe quindi avere anche enormi implicazioni nel procedimento di estradizione statunitense contro Assange.

Greg Barns, avvocato di Assange e consulente di WikiLeaks, ha risposto così alla domanda dei giornalisti relativa al procedimento per l’estradizione negli Stati Uniti: “certamente questa sentenza aiuta anche a ricordare ai tribunali del Regno Unito che la protezione fornita dal Primo Emendamento negli USA è molto estesa“.

P.S. : non ci sembra molto divulgata la sentenza d’assoluzione di Assange, almeno non quanto lo furono le invettive d’attacco per creare il “mostro”.

Lito