La guerra mediatica è in corso

di Yailin Orta

Estratto dall’intervento di Yailin Orta, Direttrice del Giornale Granma, nel programma televisivo Mesa Redonda di giovedì 1 ottobre 2020.

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Come sfida essenziale, io focalizzerei ciò che significa la lotta ideologica contemporanea, che è molto acuta, molto complessa, perché Internet è un terreno minato, ma è anche un’opportunità per Cuba di mostrare la sua verità, esporla, moltiplicarla. Ma in questo scenario i confini sono sfocati. Siamo di fronte a una Task Force, progettata negli Stati Uniti. Le demonizzazioni contro Granma non sono spontanee, dietro di esse c’è tutta una campagna mediatica, che sostiene: “Attacchiamo il Granma”, perché stanno attaccando la simbologia, anche l’anima di ciò che significa il Partito Comunista di Cuba, ed è un modo di delegittimare, screditare la forza del Partito e, prendendo di mira il partito nel loro attacco, puntano anche contro l’unità nazionale.

In tutta questa campagna di odio, come ha recentemente affermato il presidente Miguel Díaz-Canel nel nostro Consiglio dei Ministri, ci sono campagne di linciaggio a cui stiamo assistendo, di odio viscerale e il più rozzo, che ha espressioni diverse e tutte sono articolate, perché c’è un sistema di media privati, che pure articola queste campagne. Un sistema che sta anche cercando di creare parallelismi con la nostra società civile e di cercare portavoce di una società civile pro-yankee. Tutto questo viene stimolato con quel sistema, con i presunti opinion leader prefabbricati, che perseguono anche questo complesso ambiente di aggressione, che non possiamo sottovalutare.

C’è un impulso a capitalizzare tutta la simbologia e la verità della Rivoluzione, ma oltre a questo stanno puntando a che l’emotività funzioni molto più della razionalità, e cercano il modo di centrare una matrice di opinioni, per stabilirla, e poi far sì questa matrice manipolatrice e distorsiva sia quella che prevale. È uno spazio [quello delle reti] in cui dobbiamo crescere perché molte persone si inibiscono, perché le persone non vogliono essere al centro di quegli attacchi, perché per di più ovviamente uno sta male, perché è un’aggressione con tutta l’ostilità.
Abbiamo la responsabilità, come giornalismo, di continuare a formare un recettore critico, che non sia vittima di queste manipolazioni, che abbia la capacità di reagire di fronte a uno scenario così complesso.

C’è un George Soros (1), che è come un è come il carro armato pensante dei democratici, e abbiamo anche i fratelli Koch (2), che pensano a tutti quei meccanismi, che stanno vedendo le possibilità di espandere il capitale attraverso tutto quello scenario, e Cuba lì è un baluardo di resistenza.
Quindi la guerra mediatica è in corso, non è qualcosa di astratto, e il quotidiano Granma e il suo gruppo devono crescere di fronte a uno scenario molto difficile e per questo abbiamo stretti collaboratori, personalità della cultura, perché non vogliamo solo restare nel nostro gruppo, ma far sì che questa famiglia cresca, perché dobbiamo continuare a sostenere la verità del Paese, con tutto ciò che implica il pensiero antimperialista e anticapitalista, la difesa del socialismo, che è quella formazione di coscienza costante, sentimentale ed emotiva da parte del giornale del Partito”.

Note:

1. George Soros: magnate statunitense creatore della Open Society Foundation, meccanismo di finanziamento attraverso progetti della società civile utilizzato per strategie di destabilizzazione e di cambio di regime che hanno dato origine alle cosiddette “rivoluzioni colorate” in paesi come l’Ucraina, la Georgia e la Serbia, e che hanno cercato di essere attuati in Venezuela, Nicaragua e Cuba.
2. Charles Koch, insieme a suo fratello David Koch, morto nel 2019. Imprenditori industriali e miliardari che sono stati tradizionalmente sostenitori finanziari e politici del Partito Repubblicano, compresa la campagna presidenziale di Donald Trump.

Traduzione di Mac2

Fonte: La Pupila Imsomne – Cuba

https://lapupilainsomne.wordpress.com

Cuba, tra riforma e Rivoluzione

di Jordi Córdoba

Il trionfo della Rivoluzione cubana del 1959, dopo una lunga guerriglia contro la dittatura di Fulgencio Batista, portò alla costituzione di un nuovo governo nazionalista e di sinistra. Una rivolta guidata da Fidel Castro ed Ernesto “Che” Guevara che, nonostante la vittoria, fu costretto a continuare ad affrontare i gruppi controrivoluzionari, sostenuti dagli Stati Uniti, nettamente sconfitti a Bahía Cochinos – Baia dei Porci (1961).

Tutto ciò ha avuto un’influenza significativa sul fatto che molto presto sia stato dichiarato il carattere socialista della Rivoluzione e che abbia avuto luogo un progressivo avvicinamento all’Unione Sovietica. Il Partito Unito della Rivoluzione Socialista, frutto dell’unione dei diversi gruppi che guidarono l’insurrezione, tra cui il Movimento 26 de Julio di Fidel, sarebbe presto diventato il Partito Comunista di Cuba (1965) mentre veniva soppressa gran parte della proprietà privata, rispettando comunque le piccole imprese.

Poco dopo si produsse tra URSS e Stati Uniti la grave crisi dei missili, installati in principio per prevenire qualsiasi invasione nordamericana, ma che portarono ad una forte escalation nella cosiddetta “guerra fredda”, diventando una situazione prebellica che stava per provocare un conflitto nucleare, anche se fortunatamente entrambe le potenze alla fine raggiunsero un accordo in cui i sovietici si impegnavano a ritirare i missili da Cuba, mentre i nordamericani avrebbero fatto lo stesso entro sei mesi con buona parte dei loro missili a medio raggio in Turchia e in Italia, impegnandosi anche a non invadere il Paese caraibico. Cuba era un piccolo Paese che dal primo giorno è stato oggetto della più brutale e determinata aggressione dell’imperialismo, che ha dovuto dedicare una parte significativa delle proprie risorse alla propria difesa, invece che dare la priorità ad altri obiettivi che sarebbero stati socialmente più utili (1).

Come spiegò lo stesso Che nel 1963, riferendosi alle difficoltà incontrate dalla Rivoluzione nei suoi primi anni, “abbiamo iniziato il gigantesco compito di trasformare la società da cima a fondo nel mezzo dell’aggressione imperialista, di un blocco sempre più forte, di un cambiamento completo nella nostra tecnologia, di una grave carenza di materie prime e di prodotti alimentari, e da una fuga di massa dei pochi tecnici qualificati che abbiamo” (2).

Nonostante l’inevitabile avvicinamento all’URSS, e come lo stesso Fidel difese molti anni dopo, il modello cubano ha cercato fin dal primo momento una propria strada: “Concepisco tutte le forme di socialismo con uno stesso obiettivo e un modo diverso di portarlo avanti, uno stile diverso, nato dalle radici, dalle circostanze storiche e dalle circostanze concrete di ogni Paese” (3).
È anche vero che fin dall’inizio si è caduti in una certa burocratizzazione, come ha ricordato il Che quando ha affermato che “solo se conosciamo le cause e gli effetti del burocratismo, possiamo analizzare esattamente le possibilità di correggere il male. Tra tutte le cause fondamentali, possiamo considerare l’organizzazione come il nostro problema centrale e affrontarla con tutto il rigore necessario” (4)

Negli anni ’80 e dopo due decenni di difficoltà, i vantaggiosi accordi commerciali con l’Unione Sovietica e con i paesi dell’Europa dell’Est, con i quali Cuba intratteneva il grosso dei suoi rapporti commerciali, concentrati soprattutto nelle importazioni di petrolio e nelle esportazioni di zucchero, hanno portato a una certa prosperità economica, rispetto ai paesi vicini. Ma lo scioglimento dell’URSS e la scomparsa del blocco socialista (1989-1991) hanno comportati l’inizio di una grave crisi che, insieme al duro blocco degli Stati Uniti, portò il governo cubano a dichiarare nel 1990 il cosiddetto Período Especial, con un accentuato calo del PIL che avrebbe richiesto anni per riprendersi. L’aggravamento della situazione ha portato ad un peggioramento delle condizioni di vita e all’aumento dell’immigrazione. Forse l’aspetto positivo di quel periodo fu il recupero di un’agricoltura più sostenibile, all’utilizzo di risorse energetiche più responsabili e a un atteggiamento più rispettoso nei confronti delle risorse naturali.

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Operación Carlota, 45 anni dall’epopea cubana in Angola

 La Storia non viene raccontata dai perdenti morali, quelli che ancora oggi controllano in Occidente il Colonialismo Culturale di cui siamo succubi

Il 5 novembre 2020 Cuba ha celebrato il 45° anniversario dell’inizio dell’Operación Carlota, che indica l’aiuto militare internazionalista fornito dall’Isola all’Angola di fronte alle minacce alla sua sovranità.
Il 5 novembre 1975, su richiesta del Movimento Popolare per la Liberazione dell’Angola (MPLA), il Governo cubano decise di sostenere direttamente la nazione africana con l’invio iniziale di un battaglione di truppe speciali del Ministero dell’Interno.

Un anno prima, la rivolta militare avvenuta in Portogallo e nota come la Rivoluzione dei garofani, aveva permesso ai territori coloniali lusitani di raggiungere la loro indipendenza.
Tuttavia, nel 1975, l’ex colonia era minacciata da quella che era la sua metropoli, la North American Central Intelligence Agency, da alcuni paesi dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico come gli Stati Uniti, dall’apartheid del Sud Africa e lo Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo).ù
Per preservare l’indipendenza e l’integrità territoriale, il leader del MPLA, António Agostinho Neto, inizialmente chiese a Cuba armi e istruttori, la qual cosa sarebbe stata poi completata dall’Operación Carlota.

Il 23 ottobre 1975, le forze sudafricane lanciarono un’invasione contro l’Angola e avanzarono rapidamente verso Luanda, mentre truppe dello Zaire e mercenari arrivarono a 25 chilometri dalla capitale angolana.
I primi istruttori cubani caddero in combattimento il 3 novembre dello stesso anno e otto giorni dopo Neto proclamò l’indipendenza dell’Angola e divenne il primo presidente del nuovo Stato africano.
Durante l’Operación Carlota, si è svolta la battaglia di Cuito Cuanavale (a sud di Luanda), dal dicembre 1987 al marzo 1988, che ha permesso di preservare l’indipendenza del paese e ha influenzato la liberazione della Namibia (nel marzo 1990) e la fine del sistema di segregazione razziale in Sud Africa.

Dal 1975 al 1991 circa 300.000 cubani hanno partecipato all’epopea africana e più di 2.000 hanno perso la vita. I loro resti sono stati rimpatriati durante la cosiddetta Operación Tributo.
Secondo il leader della Rivoluzione cubana, Fidel Castro, che ha diretto quella missione, è stata “un’impresa straordinaria del nostro popolo, soprattutto dei giovani” e “poche volte è stata scritta una pagina uguale di altruismo e solidarietà internazionale”.

Nella cerimonia di commiato a coloro che sono caduti in quell’impresa, ha sottolineato che sono morti combattendo contro il colonialismo, il razzismo, il saccheggio, lo sfruttamento e a favore dell’indipendenza, del socialismo e dell’internazionalismo.
L’operazione ha preso il nome dalla schiava Carlota, che il 5 novembre 1843 si ribellò con un machete in mano nello zuccherificio Triunvirato, nella provincia occidentale di Matanzas, ai tempi del colonialismo spagnolo nell’isola.

Traduzione di Mac2

Fonte: Prensa Latina – Argentina

https://www.prensa-latina.cu/index.php?o=rn&id=408974&SEO=operacion-carlota-45-anos-de-la-epopeya-cubana-en-angola

 

Il giornalismo non è un crimine – Il martirio di Julian Assange e il regno di questo mondo

Memoria corta? Assange paga per aver rivelato quanto stava sotto il tappeto

di Silvia Arana

Il 22 ottobre si sono compiuti dieci anni dalla pubblicazione dei Registri sull’Iraq, documenti che hanno rivelato i crimini di guerra perpetrati nel Paese mediorientale. Tuttavia, nessuno è stato portato in giudizio per le decine di migliaia di civili morti. Gli unici perseguiti dalle autorità statunitensi sono stati i soldati che hanno denunciato i crimini e l’editore di WikiLeaks che li ha pubblicati.
Tra la fine del diciottesimo e la metà del diciannovesimo secolo, gli africani fuggitivi dalla schiavitù nelle piantagioni dei Caraibi portavano con sé erbe e funghi tossici da ingerire nel (probabile) caso di essere catturati e quindi morire prima di subire i brutali tormenti che i loro padroni i colonialisti li infliggevano loro come preludio della morte.

Ciò nonostante, molti fuggitivi venivano catturati vivi. Forse il più leggendario di tutti è stato Mackandal, leader dei cimarrones di Haiti, a cui venivano attribuiti poteri soprannaturali; si assicurava che il suo corpo possedesse il dono della metamorfosi che lo rendeva invisibile alle orde di cacciatori di schiavi e ai loro segugi. Tuttavia, fu catturato nel 1758 e portato a Cabo Haitiano dove fu bruciato su un rogo, in un macabro spettacolo pubblico preparato con cura dalle autorità coloniali come monito agli schiavi. Alejo Carpentier ricrea la scena in El Reino de este Mundo (Il regno di questo mondo). Secondo i colonialisti francesi, il corpo del leader ribelle brucia sul rogo, ma secondo gli schiavi Mackandal si trasforma in un uccello, vola e si salva rimanendo nel regno di questo mondo. Mackandal sauvé!, gridano gli schiavi intorno al falò.
Ai nostri tempi non sono comuni i falò perché esistono altre forme di martirio più sottili, ma non meno perverse.

La spietata persecuzione di Julian Assange è un esempio di come distruggere un oppositore usando forme moderne di martirio: torture psicologiche, tribunali segreti, testimoni a cui viene concessa l’immunità se testimoniano contro di lui, accordi con governi di paesi terzi per il non rispetto delle leggi internazionali a danno del perseguito -come è stato il caso del governo dell’Ecuador che ha consegnato un rifugiato politico in asilo presso il suo consolato a Londra-, processo di estradizione in cui la giudice britannica agisce in coordinamento con il team legale statunitense per pregiudicare la difesa dell’accusato, eccetera, eccetera.

Julian Assange è un Mackandal australiano dalla pelle bianca, un cimarrón contro cui tutto è permesso poiché ha avuto il coraggio – in qualità di editore di WikiLeaks – di rivelare al pubblico crimini di guerra commessi dal governo degli Stati Uniti e dai suoi alleati in paesi del Medio Oriente e in altre parti del mondo. WikiLeaks ha pubblicato più informazioni segrete di tutti gli altri media messi insieme. Le rivelazioni hanno informato il pubblico sulle clausole segrete di accordi commerciali, della sorveglianza di massa, degli attacchi contro i civili, della tortura e delle uccisioni.

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Leopoldo López, il fattore Madrid e il fallimento della “strategia Guaidó”

I mancati Super Eroi, Lopez & Guaidó

Leopoldo López è il principale protagonista del complotto dell’opposizione estremista in Venezuela, facendo del partito da lui fondato, Voluntad Popular (VP), un’organizzazione terroristica, responsabile di molteplici offensive antipolitiche lesive dell’essenza della Repubblica bolivariana..
Formatosi al Kennedy College dell’Università di Harvard, fu scelto da un certo settore interessato dell’establishment statunitense per gestire un ipotetico Venezuela inginocchiato ai piedi di Washington.
Questo centro di formazione nel cuore dell’accademia d’élite nordamericana riunisce e prepara le figure che in seguito organizzeranno e dirigeranno istanze e istituzioni di controllo globale, dietro il capitalismo neoliberista globalizzato, che modellano il totalitarismo finanziario che opera da Wall Street, il complesso militare -industriale e le compagnie petrolifere statunitensi. Da lì provengono i dirigenti della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale, dell’Onu, Goldman Sachs, dei principali studi legali, delle banche più importanti, delle prime compagnie petrolifere, dell’industria degli armamenti.
Il suo partito Voluntad Popular (VP), fondato nel 2011, è un’espressione della strategia delineata dal circolo di López, sponsorizzato dal National Endowment for Democracy (NED), un’organizzazione dipendente dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti (curiosità: López ha ricevuto nel 2015 il Democracy Award [Premio Democrazia] della NED). Si potrebbe dire che VP è figlio della politica estera americana, e analogamente Lopez.

La sua gestione come sindaco di Chacao (2000-2008) avalla il modo di fare politica “all’americana”. Quelle agenzie pubblicitarie chiamate mezzi di comunicazione indipendenti hanno venduto un giovane sindaco che si è laureato ad Harvard e lo hanno trasformato in un candidato alla presidenza, che fa “attivismo di strada” e si mostra leader in difesa della democrazia e dei diritti dei cittadini.
Il suo appello per “La Salida” nel 2014, solo pochi mesi dopo la prima elezione di Nicolás Maduro, ha dato luogo a scenari di violenza organizzata in gran numero e in escalation, che si sono manifestati nuovamente con maggiore forza nel 2017.

Il modello di rivoluzione colorata violenta era stato disegnato dalla macchina di VP, nota per un prontuario terroristica, per aver utilizzato le poche quote di potere pubblico a favore dei blocchi guarimberos e della destabilizzazione istituzionale, con legami narco-paramilitari, mentre i suoi dirigenti sono i più vicini all’establishment americano.
Si voleva vendere la sua prigione come una sorta di “Mandela venezuelano”, tuttavia era un feticcio mai raggiunto dai media, tranne che per la ripetizione del manifesto mediatico nell’esaltazione della sua figura incontaminata.

Quando aveva già 49 anni, era stato nascosto nella residenza dell’ambasciatore dopo il completo fallimento di un tentativo di colpo di stato militare condotto da lui e dallo stesso Guaidó nell’aprile 2019 contro il presidente Nicolás Maduro. È stato detenuto a Ramo Verde (stato di Miranda), agli arresti domiciliari e in un’ambasciata straniera negli ultimi sei anni.
La sua rilevanza mediatica è solo momentanea, tuttavia è il referente diretto di Guaidó, il suo principale consigliere e burattinaio.
López, a quanto pare, gode del favoritismo di un settore neoliberista e neoconservatore dell’establishment statunitense, ma forse non lo considera come il modello presidenziale per un ipotetico Venezuela senza chavismo al potere. Trump, per quanto si sa, non sembra personalmente interessato a lui (a parte Guaidó).

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Trump-Biden: cattive notizie per il mondo

Immagine: l’asino rappresenta il Partito Democratico e l’elefante, il Partito Repubblicano

La sera di giovedì 22 ottobre si è svolto l’ultimo dibattito tra Donald Trump e Joe Biden in vista delle elezioni presidenziali americane martedì prossimo, 3 novembre. La Commissione per i Dibattiti Presidenziali ha stabilito che gli argomenti di discussione nell’evento che si è svolto solo 13 giorni prima delle elezioni fossero il coronavirus, le famiglie statunitensi, i rapporti razziali, il cambiamento climatico, la sicurezza nazionale e la leadership. Inoltre, come apparente misura per evitare che il presidente ripetesse la sua imbarazzante condotta del dibattito precedente, la commissione ha deciso di chiudere il microfono di ciascun candidato durante alcune fasi del dibattito.

Il dibattito si è svolto con lo stesso tono che ha segnato l’intera campagna elettorale: un Trump che mente apertamente senza battere ciglio, che fa affermazioni deliranti – come quella ormai trita di presentarsi come il presidente che ha fatto di più per la popolazione nera da Abramo Lincoln in poi – e che rifiuta di riconoscere qualunque errore nella sua amministrazione; e un Biden titubante, poco convincente e in seria difficoltà a rispondere alle accuse lanciate e a difendere la credibilità della sua agenda. Un esempio di questa dinamica è che il magnate ha ripetutamente squalificato il suo avversario argomentando che tutti i suoi progetti avrebbe dovuto realizzarli mentre era nel governo di Barack Obama,e che Biden impiegava più di un’ora per indicare il noto motivo per cui quasi tutte le intenzioni democratiche sono state impantanate tra il 2008 e il 2016: il sistematico blocco repubblicano nel Congresso.

Al di là dell’aneddotica, lo scambio tra il repubblicano che aspira alla rielezione e l’ex vicepresidente democratico che cerca di tornare alla Casa Bianca è stata una nuova dimostrazione dell’allarmante deterioramento della democrazia statunitense. Non solo per l’assenza di proposte o riflessioni, e per la forma di spettacolo mediatico che caratterizza questi atti sia a Washington che in altri luoghi, ma per quanto risultano vicine alcune posizioni che si presumono antagoniste. Si potrebbe qualificare come negazione della democrazia il fatto che in un sistema bipartitico, pieno di blocchi per impedire l’ingresso di nuove formazioni politiche, i cittadini si vedano costretti a scegliere tra due alternative difficili da distinguere.

Quanto sopra è assolutamente e purtroppo vero per quanto riguarda la politica estera e la concezione del ruolo degli Stati Uniti negli affari globali. Sebbene fosse risaputo da molto tempo, il consenso imperiale in atto tra la classe politica statunitense è diventato evidente nella demonizzazione demagogica che entrambi i candidati hanno effettuato contro le nazioni che Washington considera nemiche, in particolare Cina, Iran e Russia. In questa gara per esibire credenziali imperialiste, Biden è arrivato a minacciare questi paesi di fargliela pagare per la loro presunta interferenza nelle elezioni. L’effettiva vicinanza tra i contendenti è stata trasparente anche nell’area della migrazione, durante la cui discussione è stato evidenziato che l’unico interesse dell’uno e dell’altro era quello di attirarsi il voto dei latini, sebbene durante i rispettivi incarichi abbiano promosso politiche ostili a questa comunità.

In pratica, il dibattito di ieri ha chiarito che né il Messico né il resto del mondo possono aspettarsi qualcosa di positivo dal governo scaturito dalle prossime elezioni nella superpotenza, di qualunque segno.

Traduzione di Mac2

Fonte: La Jornada – Messico

https://www.jornada.com.mx/2020/10/23/opinion/002a1edi

 

Covid, Cuba, Svizzera e una denuncia del sistema mediatico

Dalla Svizzera il Professor Franco Cavalli interviene su Covid, su Cuba e sul meschino sistema mediatico che anche in terra elvetica cerca d’infangare la realtà per scopi di vassallaggio culturale.

Il Prof. Franco Cavalli, direttore sanitario dell’Istituto Oncologico della Svizzera Italiana (IOSI) era subentrato al Prof. Umberto Veronesi nella funzione di presidente del comitato scientifico della Scuola Europea di Oncologia (ESO). Attualmente è anche presidente di mediCuba Europa.

Fonte: mediCuba Europa – Svizzera

http://www.medicuba-europa.org/

Uccidere la morte

Abbiamo sempre detto e scritto che per ricordarci del Che non servono le date stabilite o le sole  commemorazioni: è sempre presente nel pensiero e nelle azioni dei progressisti

In mezzo a tanto odio della destra e con un Trump onnipresente, il ricordo di Ernesto Che Guevara dà ossigeno

di Abelardo Castillo

Señor, concede a cada cual su propia muerte.
Rilke.

(Signore, concedi a ciascuno la propria morte. Rilke.)

Le cortaron las manos y aún golpea con ellas.
Lo enterraron y hoy viene cantando con nosotros.
Neruda.

(Gli hanno tagliato le mani e ancora continua a colpire con esse.
Lo hanno sepolto e oggi canta con noi. Neruda.)

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L’8 ottobre, a Vallegrande, hanno ucciso il Che. Lo dicono i generali boliviani, e deve essere vero. La morte, in fin dei conti, è l’aneddoto meno inaspettato della vita: la questione è non morire di morte altrui, e il guerrigliero che è morto, è morto di quella che aveva scelto. Questo, chi crede in Dio, a causa di un malinteso, lo chiama Salvazione. Noi che non siamo credenti, anche. E io lo chiamo persino non morire, abolire la morte: ucciderla.

C’è un cadavere, è vero. Tutti i giornali del mondo hanno mostrato un morto che gli assomiglia, che sicuramente è il Che. Una fotografia, soprattutto, è impressionante: è di profilo, la foto riporta freddamente delle sopracciglia che certo non sono di un altro uomo (gli davano quell’aria da giovane fauno; chi l’ha visto ridere non può aver smesso di pensare che quella fronte si contraddiceva un po’ con la sua risata, e quindi la faccia di chi sta tramando un’incomunicabile birichinata, quel gesto che i generali non gli hanno potuto cancellare), ha gli occhi aperti e la testa mezza alzata, ha le braccia nell’atteggiamento di chi sta per alzarsi, ha una pallottola nel cuore. Nessuno, tuttavia, ha accettato che quel corpo fosse suo. Nessuno, nemmeno chi lo odiava e che prima per dieci volte ne aveva miserabilmente ordito la morte, per mano di Fidel Castro, o a Santo Domingo, o per suicidio. Gli stessi generali che l’hanno ucciso, ne sono certo, hanno già cominciato a dubitarne. E penso che abbiano ragione.

Lo scriverò, cercherò di scriverlo senza cadere nella trappola delle parole, delle frasi che alludono ai morti che nonostante la morte Lo scriverò, cercherò di scriverlo senza cadere nella trappola delle parole, delle frasi che alludono ai morti che sono ancora vivi nonostante la morte. Dirò che il guerrigliero morto di Vallegrande non era il Che. Non lo era più. Hanno crivellato un corpo, lo hanno seppellito da qualche parte o hanno cremato un’argilla corruttibile. E fino a lì ha operato la morte. E da quel momento, a partire dallo spargimento delle sue ceneri, da un cadavere che non verrà mai ritrovato, il Che è diventato nuovamente libero di andare e venire per l’America, ma senza cambiare nome e senza nascondere il suo volto.
Voi non avete ucciso nessuno: avete resuscitato un uomo. E qualcosa di più. Fino all’8 ottobre si poteva dubitare che esistessero esseri capaci di lottare per gli altri, di fare una rivoluzione, di raggiungere il potere, di abbandonare tutto e di ricominciare da capo: di rinunciare alle cose temporali, che è lo stesso che negare il tempo. Scegliere e seguire un destino. Chi, con quali argomenti e soprattutto con quale esempio, può distruggere questa mistica oggi. Dico misticismo e intendo misticismo. Fino all’8 ottobre, chiunque poteva pensare: è una bugia, è Cuba che ha bisogno di inventare un fantasma per sopravvivere. Ora si sa che il Che c’è. E non proprio sepolto nella selva. C’è. Bello e invulnerabile come l’eroe di un romanzo, e freddo e lucido come un’inesorabile macchina per fare giustizia.

Non tutte le morti uccidono. I giornali, senza volere, lo sapevano. “Ha trovato la morte a Vallegrande”, hanno detto. E così è. Ci sono uomini che trovano la loro morte, quella che li merita, come se dovessero morire per togliersi la preoccupazione di essere mortali. E quello che hanno ucciso aveva un problema personale con la morte (“se non torno tra due mesi”, scrisse ai suoi genitori la prima volta che partì all’avventura, “andate a cercare la mia la testa ridotta dagli jibaros al museo di New York”, e la sfida si ripete in tutti i suoi scritti, in tutte le sue lettere fino all’ultima, già in Bolivia: “Non uscirò di qui se non con i piedi in alto”), ne aveva perso il rispetto e si rideva della morte con umorismo.

Un uomo, un poeta, si è lasciato morire della morte con cui lo stava uccidendo la spina di una rosa: lui che aveva cantato alle rose e alla morte. Un altro uomo si è fatto crocifiggere perché era giunto il momento. Chi crede che paragonare Rilke a Gesù sia un’eresia, chi immagina che quelle morti non siano anche la morte di cui parlo, farà bene a chiedersi che povera cosa abbia capito, fino ad oggi, della vita.

Dimenticavo: la morte del Che non mi addolora. Non ho voglia di commuovere, né di commuovermi, con retoriche da cimitero. Non voglio che questo editoriale sia patetico o solenne, né deve esserlo perché Ridurre la morte di Guevara all’intimità del dolore non è nel suo stile. Le ragazze argentine da parte loro hanno già pianto davanti alle telecamere quando i generali hanno mostrato il suo corpo, abbiamo già incollato la sua foto sul muro – tra Beatles e bandierine – e magari va bene così. I poeti hanno già iniziato a inviare elegie allusive alle riviste. Quindi non c’è bisogno di versare altre lacrime. Che cosa ho fatto per impedire che lo uccidessero? questo, invece, mi sembra un buon modo di affrontare le cose: una buona domanda. Evita le emozioni facili.

E con questo chiarimento, posso terminare. Da quell’assassinio, da quell’immolazione, i generali hanno paura. O dovrebbero averla. Perché una volta che un uomo così ha incontrato la morte, non ci sono più pallottole, non ci sono più ranger, né marines che valgano. Non “se ne va” più dalla vita. Non ha altro che vita. È pura, molteplice, violenta vita, che non si uccide.

(Editoriale che faceva parte della rivista El escarabajo de Oro nel novembre 1967, dedicato al Comandante Ernesto Che Guevara, dopo che era stata resa nota la notizia del suo assassinio in Bolivia).

Traduzione di Mac2

Fonte: Medium Cuba – USA

https://medium.com/dominio-cuba/

Nuova sede della Cinemateca de Cuba: non si può andare avanti senza guardare indietro

di Yaima Puig Meneses

Il presidente Díaz-Canel ha partecipato all’inaugurazione della nuova sede della Cinemateca de Cuba, un luogo in cui vengono unificati tutti i dipartimenti dell’istituzione, precedentemente distaccati nell’Istituto Cubano di Arte e Industria Cinematografica (ICAIC).

La Cinemateca de Cuba ha una nuova sede dal 20 ottobre, Giornata della Cultura Nazionale. Il Presidente della Repubblica, Miguel Díaz-Canel Bermúdez, è venuto martedì nella sede nel quartiere Vedado di La Habana per inaugurare ufficialmente il nuovo spazio, dove d’ora vengono unificati tutti i dipartimenti dell’istituzione, precedentemente distaccati nell’Istituto Cubano di Arte e Industria Cinematografica (ICAIC).

All’ingresso del complesso, luogo emblematico dove visse Alfredo Guevara, fondatore della Cinemateca e al quale tanto deve la cultura nazionale, il noto regista e fondatore dell’ICAIC, Manuel Pérez Paredes, ha svelato una targa commemorativa con la quale si rende omaggio all’illustre intellettuale cubano, la cui intuizione e lucidità rivoluzionaria hanno rappresentato e dato prestigio a Cuba nei più diversi ed esigenti scenari del mondo.
Il Capo di Stato, dopo aver fatto un breve giro nei vari saloni dell’istituzione, dove ha potuto apprezzare le preziose collezioni che vi sono custodite, si è recato al teatro Abelardo Estorino, situato presso il Ministero della Cultura, dove si è svolta una incantevole serata che ha inaugurato ufficialmente la Cinemateca.
“Restaurare e preservare per il presente e per le generazioni future il patrimonio custodito nell’Archivio di Film della Cinemateca rappresenta non solo un compito prioritario, ma la sfida più grande da affrontare per il futuro. Non si può andare avanti senza guardare indietro”, ha detto Luciano Castillo, direttore dell’istituzione.

Questa è proprio l’encomiabile missione a cui dal 1960 si è dedicata la celebre istituzione cubana, che custodisce uno dei più grandi patrimoni cinematografici della nostra area geografica e in cui Alfredo Guevara e Héctor García Mesa hanno svolto un ruolo importante sin dagli anni della fondazione. A loro, in modo particolare, è stato reso omaggio in questo giorno di ottobre, nel quale la storia e la cultura hanno dimostrato ancora una volta che la Rivoluzione non è estranea all’arte.
Nelle sue toccanti parole il Direttore della Cinemateca ha fatto un resoconto del lavoro svolto dall’istituzione in tutti questi anni fino ai giorni nostri, marcato da una programmazione rigorosa, in equilibrio tra nazionalità, movimenti e tendenze, generi e tematiche; la valorizzazione dei nostri famosi e unici manifesti; e moltre altre azioni che con nostro orgoglio la contraddistinguono.
“Moltiplicare e incentivare le azioni di promozione e ricerca di questo patrimonio da parte dei suoi specialisti e l’ottima attenzione al crescente numero di studiosi e critici interessati a consultarlo è il passo immediato, senza smettere di sognare, insieme ad Alfredo e Héctor un museo del cinema cubano”, ha poi riferito.

Alla presenza anche del Vice Primo Ministro Roberto Morales Ojeda; del Ministro della Cultura, Alpidio Alonso Grau; del presidente della Casa de las Américas, Abel Prieto Jiménez; dell’illustre cantautore Silvio Rodríguez; così come delle massime autorità del Partito e del Governo di La Habana; e di una rappresentanza di artisti, intellettuali e personalità della cultura cubana, il Direttore della Cinemateca de Cuba ha anche ringraziato tutti coloro che in questi anni hanno reso possibile il miracolo di mantenere vivo il cinema cubano.
Tra note filmiche e immagini preziose recuperate dagli archivi della Cinemateca, è trascorso l’emozionante momento, in cui il presidente dell’ICAIC, Ramón Samada, e il Direttore della Cinemateca hanno consegnato al presidente della Repubblica –a nome dei cineasti e dei lavoratori dell’ICAIC- due opere che rendono omaggio alla tradizione dei manifesti cubani del cinema, uno delle quali per il generale dell’esercito Raúl Castro Ruz.

È così che si è conclusa a La Habana la giornata del 20 ottobre, in cui anche da questa nuova sede della Cinemateca si è reso omaggio alla cultura cubana e a coloro che tanto hanno contribuito e continuano a contribuire ad essa.

Traduzione di Mac2

Fonte: Agencia Cubana de Noticias – Cuba

http://www.acn.cu/

 

Il blocco statunitense è la forma di violenza più lesiva contro le donne cubane

Foto di Ismael Batista Ramírez

di Gladys Leidys Ramos

“Noi cubane siamo state essenziali nelle zone rosse, nella progettazione dei protocolli di azione e nel processo di ricerca di proposte per i vaccini”, ha detto all’ONU la Segretaria Generale della FMC.
Teresa Amarelle Boué, Segretaria Generale della Federazione delle donne cubane (FMC), ha denunciato questo giovedì alle Nazioni Unite che il blocco economico, commerciale e finanziario del governo degli Stati Uniti contro Cuba, intensificato ferocemente in tempi di pandemia, a causa del suo impatto negativo sul popolo dell’Isola, e sulle sue donne in particolare, costituisce il principale ostacolo alla realizzazione dei loro diritti e la forma di violenza più lesiva contro di loro.

Intervenendo nel segmento di alto livello della 75^ sessione ordinaria dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dedicata all’uguaglianza di genere e all’emancipazione delle donne, e nel 25° anniversario della Dichiarazione e Piattaforma d’Azione di Pechino, Teresa Amarelle Boué, membro anche dell’Ufficio Politico del Partito, ha riferito come gli spazi conquistati in tutti i settori economici e sociali dalle donne cubane siano stati il risultato della volontà politica dello Stato e del Governo di Cuba, di sostenere queste azioni attraverso l’applicazione di leggi e programmi, dove la nuova Costituzione della Repubblica occupa un posto importante e vidima l’impegno al principio di uguaglianza e non discriminazione.

Ha sottolineato che la società cubana, senza essere perfetta, è un esempio di inclusione: «Noi cubane riceviamo lo stesso salario per un lavoro di pari valore. Una legislazione avanzata sul lavoro garantisce i nostri diritti nel settore statale e non statale. Abbiamo anche accesso a programmi di sicurezza sociale, godiamo di servizi di istruzione e sanitari di qualità e gratuiti».
Amarelle Boué ha sostenuto come, ad esempio, nell’occupazione le donne cubane rappresentino il 49% nel settore statale civile e più dell’80% hanno un livello di istruzione medio superiore o superiore. Ha affermato che sono la maggioranza tra giudici e pubblici ministeri, costituiscono il 53,5% nel settore delle scienze, dell’innovazione e della tecnologia e rappresentano il 69,6% nel settore della Salute Pubblica.

Ha evidenziato il fatto che le donne cubane facciano parte delle brigate mediche che prestano servizio in diverse regioni del mondo, e ha evidenziato il ruolo fondamentale che hanno nella lotta contro il nuovo coronavirus, soprattutto nelle cosiddette zone rosse, nella progettazione dei protocolli di trattamento e anche nella ricerca sui vaccini contro la malattia.
La Segretaria Generale della FMC ha assicurato che il Piano di Sviluppo Economico e Sociale fino al 2030 e il processo di aggiornamento legislativo del Paese, rafforzano la volontà di Cuba di eliminare tutte le forme di discriminazione e violenza che persistano, per raggiungere la piena uguaglianza di diritti e opportunità, in conformità con la Dichiarazione e Piattaforma d’Azione di Pechino e con la Convenzione per l’Eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione nei confronti delle Donne.

Traduzione di Mac2

http://www.granma.cu/mundo/2020-10-02/el-bloqueo-de-ee-uu-es-la-forma-de-violencia-mas-lesiva-contra-las-mujeres-cubanas-02-10-2020-00-10-11